mercoledì 17 giugno 2015

A CORRIFERRARA A SPASSO NEL TEMPO 30

30° PUNTATA – L'ISOLA CHE NON C'E'

 
Per la trentesima puntata del nostro viaggio nella storia di Ferrara, oggi andiamo alla scoperta di uno dei luoghi di culto più antichi della città.

Riprendendo il cammino lungo il quartiere delle ultime puntate, vale a dire la zona di via XX settembre, oggi andiamo alla ricerca di una piccola via dal nome curioso, che cela appunto, uno dei luoghi religiosi di Ferrara tra i più antichi e famosi, anche se spesso fuori dalle rotte del turismo, in quanto ubicato appena fuori il cuore della città; questo luogo è il monastero di S. Antonio in Polesine.

Monastero

Per arrivarci, dobbiamo cercare ora Via del Gambone.
Oltrepassato il glorioso Palazzo Costabili, ancora qualche centinaio di metri e sulla sinistra incrociamo la nostra strada.

Sembrerebbe che il Gambone, sia proprio quello che per un ferrarese è “al gambon”, cioè il gambone dei cavoli, nome dato al vicolo, per ricordare dei giochi famosi per l’epoca (di cui abbiamo parlato nel capitolo del Corpus Domini) che, nella zona di via Praisolo venivano effettuati da ragazzi, appunto con torsoli di frutta e gamboni di cavoli, utilizzati come fossero armi, per rivivere delle battaglie.

Ora, incamminandoci per questa strada, basta fare pochi metri (oltrepassando via Beatrice d’Este) ed un bel portone in muratura appare all’orizzonte, è la porta di entrata al monastero. 

Ingresso S.Antonio in Polesine
 
Oggi questa strada è interamente occupata da abitazioni ma un tempo l’incrocio con via Beatrice d'Este veniva chiamato “vicolo dei quattro ladroni”, perché nei pressi di detto incrocio esistevano quattro attività, un farmacista, un fornaio, un oste ed un salumiere che, come dice il nomignolo, non avevano nessuna pietà per i poveri avventori.


Varcare questo portone, è come fare un tuffo nel passato....ci si lascia alle spalle la città (anche se siamo ben dentro le mura di esse), il progresso sembra scomparire, si abbandonano i rumori, i clacson delle auto, e la quiete sembra abbracciarci con la benedizione di Sant'Antonio Abate (rappresentato dalla statuetta posta al centro del portale).
Fare qualche passo e prima di entrare nel cortile del monastero, sediamoci sulla panchina posta davanti all'accesso; chiudiamo gli occhi e proviamo ad andare indietro nel tempo per arrivare nel primo medioevo, quando vengono poste le prime pietre di questo splendido posto.
Oggi ci risulta difficile immaginarlo, ma ci saremmo trovati nel bel mezzo di un isolotto attorniato da paludi.....quando ancora il Po passava in queste zone, l'isola appunto, di S.Antonio.

In mezzo al fiume l'isola di S.Antonio


Fu proprio questa caratteristica del terreno, l'alternanza di acqua e terra, a dare il termine “Polesine” a questo luogo.
Inizialmente nasce come monastero per frati agostiniani, ma alla metà del 1200, i frati vengono spostati nel complesso della chiesa di S.Andrea, e qui trovano spazio lo monache benedettine.
S.Antonio in Polesine acquista rilevanza quando al suo interno, si trasferisce Beatrice d'Este, e da quel momento questo posto rimane e rimarrà per sempre legato al suo nome, ma di lei parleremo più tardi.
Azzo VII d'Este (padre di Beatrice d'Este), dopo aver acquistato il complesso, inizia ad ampliarlo.
I lavori principali si ebbero tra il XIII e XIV secolo, per arrivare nel 1413, quando il vescovo Pietro Boiardi consacrò la chiesa.

Ingresso della chiesa esterna


Il crollo dell'attività religiosa si ebbe con l'arrivo dei francesi nel 1796, i quali provvidero a chiudere la chiesa ed a riservare solo un piccolo spazio alle suore all'interno del convento.
Ma probabilmente lo scempio più grande, il complesso lo subisce nel 1910,  quando un'ala (la parte destra), viene adibita a caserma (ora soppressa). Nello stesso anno, la proprietà definitivamente passa al comune di Ferrara.

Oggi il monastero (tutt'ora abitato da monache di clausura) è per noi ferraresi famoso almeno per due cose, il miracolo di Beatrice d'Este ed il ciliegio.

Partiamo dall'ultimo.

Fino a pochi anni fa, era tradizione, nel periodo tra aprile e maggio, fare almeno un passaggio nel giardino del convento; proprio al centro dello spazio verde, faceva bella mostra di se uno splendido ciliegio giapponese, nome tecnico “Prunus Serrulata”, un unicum in città, uno degli alberi più rappresentativi di Ferrara, che nel periodo a cavallo di questi due mesi, esplodeva nei suoi colori ed era una tappa obbligata passare in questo angolo di città almeno una volta all'anno per vederlo.

 
Il giardino del convento

Peccato che i segni del tempo si siano fatti sentire anche su di lui e nel 2011, l'amministrazione ha dovuto procedere alla sostituzione della pianta in quanto ormai aveva concluso il suo percorso di vita.
Dal ciliegio ora al miracolo.
Riprendiamo la storia interrotta in precedenza di Beatrice d'Este.
Nasce nel 1226 da Azzo VII Novello d'Este e Giovanna di Puglia e le cronache dell'epoca narrano che fin da piccola dimostra una forte vocazione cristiana. Accanto a sé raccoglie alcune seguaci, e sarà con loro che nel 1258 si trasferisce in questo monastero.
Sfortunatamente la monaca avrà vita breve, perché a soli 36 anni, colta da un malore perderà la vita.
Grande eco ebbe la sua morte in città, a tal punto che i fedeli reclamarono un qualcosa della monaca prima della sepoltura, le consorelle così decisero di lavare minuziosamente il corpo e l’acqua non fu gettata ma conservata e distribuita ai fedeli.
Da questo momento parte la leggenda o la storia............... le cronache raccontano che, proprio da quell’acqua, vennero operati numerosi miracoli.
La storia cominciò a diffondersi e così si moltiplicarono le visite al monastero, e le richieste di questa acqua miracolosa.
Le monache si videro costrette a ripetere il lavaggio. Questo fino al 1512 quando ciò che restava della Santa si sgretolò definitivamente. Le ossa, o quel che avanzava, vennero raccolte in un’urna deposta dentro un’arca ricca di gemme e ori. Ma accadde un altro fatto miracoloso. L’arca iniziò a produrre a sua volta una condensa, raccolta minuziosamente. Ogni anno, fino ai giorni nostri, l’evento si ripete per 5 mesi l’anno (da novembre a marzo), e viene donato il liquido prodigioso ai fedeli.
Il fatto è sorprendente perché il resto dell’ambiente è asciutto e non vi sono crepe o scanalature. Vi si arriva a raccogliere dai 5 ai 7 litri! L’acqua non ghiaccia nonostante vi siano temperature invernali sotto lo zero.
Ed ora, lasciando la nostra Beatrice, un'ultima curiosità, se ci rechiamo nel portichetto del convento, oltre alle porte di accesso al monastero ed alla chiesta esterna, possiamo notare alcune lapidi funebri e tra queste una è particolarmente curiosa, si tratta di quella dello Scalco (il cuoco....il Vissani dei giorni nostri) più famoso della corte Estense, Cristoforo di Messisbugo, morto nel 1548 e qui sepolto.
Lapide di Messisbugo
Dopo il doveroso saluto al buon Messisbugo non ci resta che salutarci per rivederci a settembre per la puntata 31.


                                                                                           Alessandro Polesinanti